REGALATI IL PERDONO


Meditazione di don Francesco Diano all'Assemblea Ecclesiale Diocesana del 19 Settembre.

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"REGALATI IL PERDONO". Prima di essere un dono per l'altro il perdono è uno straordinario regalo di pace e serenità interiore che facciano a noi stessi: una possibile sintesi della serena, chiara, sostanziosa e competente meditazione/relazione di don Francesco Diano all'Assemblea del 19 Settembre, 

 

Crotone, 19/09/2014

 

 Se il tuo fratello sbaglia …” : la fraternità sostenibile

 L’argomento su cui riflettere: “la fraternità sostenibile” è uno stimolo che ho accolto con interesse. Penso che il tema si presti a essere sviluppato in modo ampio e profondo, anche se nello spazio di una relazione si possono attraversare solo alcuni dei problemi - non tutti, certamente - e non in forma esauriente. La vita fraterna è collegata all’idea che abbiamo di noi stessi, alla nostra autocoscienza sociale, “comunitaria” (se vogliamo, pastoralmente parlando “parrocchiale”), alla visione comune di che cosa sia “fraternità cristiana”; in una parola: alla nostra identità. Questo elemento non è scontato, perché la coscienza dell’identità si rinnova continuamente. Ogni generazione ha la propria: non c’è da stare bloccati su quanto costruito nel passato.

 “Per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte

  Vivere fraternamente è realtà stupenda e faticosa insieme; perché il mio spazio di vita, luogo di condivisione e di comunione è nondimeno luogo di rivelazione dei nostri limiti. Quando si vive da soli, ci si può anche illudere di essere capaci di amare, ma vivendo con gli altri ci si rende conto di quanto sia arduo l’amore; come sia facile preferire e scegliere le persone che ci corrispondono, che hanno una certa affinità con il nostro pensiero e con il nostro sentire.

 “La vita fraterna - dice J. Vanier - è la rivelazione delle tenebre che sono in noi”. Questa rivelazione è abbastanza difficile da accettare. Ci fa provare la necessità di imparare a gestire l’imperfezione, la fragilità, la debolezza, il fallimento, il peccato. Questa è forse l’impresa più difficile. Sentiamo la fragilità della nostra comunione perché ogni giorno mangiamo il cibo amaro dei nostri dissensi, delle nostre grandi e piccole dispute e rivalità, e questo costituisce la miseria e la croce del nostro vivere la fraternità. Ma “per arrivare all’alba non c’è altra via che la notte” (Kahlil Gibran).

 Oggigiorno, dire fraternità può suscitare in ciascuno di noi echi diversi: è una parola usata e “abusata”. Della fraternità vissuta ne abbiamo percepito l’attrattiva e il fascino in alcuni momenti della nostra esperienza di vita, in altri ne abbiamo sentito la fatica e la croce. Attraversati dalle sfide di una società liquida, siamo messi in guardia dalle illusioni di contare su contesti dai principi solidi e dai valori stabili. Inaliamo un clima di continua provvisorietà, vale a dire un modus vivendi sulla base di progetti a breve termine che non consentono orientamenti stabili, ma solo fasi discontinue[1]. In questa confusione è importante trovare uno stile di fraternità che parli e incida; una fraternità come modo di abitare il nostro tempo: la postmodernità.

 Nonostante, l’orizzonte di senso al quale ispirarci è quello evangelico (Mt 18, 15-20), siamo comunque portati a chiederci, a quale fraternità ispirarci? Quali le caratteristiche da attribuire a tale fraternità? Le nostre piccole o grandi realtà parrocchiali sono preoccupate di essere “vere comunità cristiane”, dove si tenta e ritenta ogni giorno di collocare Dio al centro della vita? Le dinamiche della vita fraterna riescono a creare un tessuto di carità e di gioia oppure si svolgono secondo una saggezza umana che segue leggi psicologiche e sociologiche? Se è così il cammino della fraternità può anche sembrare affascinante, ma lascia irrisolti alcuni problemi. É molto difficile passare dallo psicologico, allo spirituale, alla fede. Dobbiamo aver ben presente che, la conoscenza di sé e l’integrazione della propria realtà non sono solo un processo di maturazione psicologica, ma un processo di fede. Senza questo passaggio nella fede rimaniamo fuori dalla realtà della vita e non camminiamo verso l’autentico compimento della persona.

  Al “centro” il Signore: «Dove sono due o tre riuniti nel mio nome, lì sono Io in mezzo a loro»

  La fraternità, nella sua sostanza di dono, è al cuore della nostra identità. Ogni relazione, non ha in noi il suo inizio, ma nel Signore. É il Signore a chiamarci, ed è lui - perciò - che fonda e giustifica il nostro stare assieme. Non sono gli affetti o la simpatia o la condivisione ideale a dare solidità alle nostre relazioni, ma piuttosto un darsi vicendevolmente credito riconoscendosi tutti chiamati, per grazia, dall’unico Signore. La dinamica stessa di ogni vocazione, si rivela sempre come storia non di una persona isolata, ma insieme con gli altri. Questa intuizione di “essere chiamati” è un volto che coinvolge, e dunque una storia. Perciò, coinvolgersi con Cristo significa entrare a far parte di una tessitura, di una rete di rapporti. La vocazione, ossia la storia di chi si è lasciato coinvolgere con Cristo, si fa anche missione e anch’essa non è un progetto da elaborare, ma una testimonianza da rendere alla chiamata: dunque espressione concreta di amore. Non ci può essere, nel medesimo tempo, l’amicizia con il Signore e lo strappo con l’altro. Non posso privilegiare un fratello a scapito dell’altro, non posso escludere nessuno a causa della sua diversità.

 I problemi che si vivono oggigiorno nelle nostre relazioni, o se vogliamo nelle nostre comunità, spesso hanno come origine proprio la mancanza di questa visione di fede. Si vive la comunità piuttosto come un gruppo umano, unito dal comune interesse, dall’affinità. Tuttavia, i fratelli sono “dono” e come tali ricevuti; non si tratta di sceglierli come gli amici. Il dono, inoltre, riporta al donatore: al Signore. “Per primo” viene il Signore. Si tratta di riportare la fraternità al suo centro: al Signore perché solo dall’amore incondizionato per il Signore scaturisce il nostro essere fratelli, “lì sono Io in mezzo a loro”. La fraternità trova soltanto nel Signore la propria origine. È, prima di tutto, dono di Dio. Lui è l’origine, il fondamento e la sua giustificazione, il centro, sul quale poggia tutta la struttura portante delle relazioni che intessiamo. Essa è un dono, e come ogni dono si declina in un impegno. L’impegno a custodire il dono; a svilupparlo in atteggiamenti voluti nell’intimo del cuore, in piccoli gesti quotidiani per animare la volontà a non ripiegarsi nel proprio egoismo.

 La vita nuova germoglia dal seme che muore!

  Un nodo risaputo della fraternità è legato al fatto di essere piuttosto consumatori avidi di fraternità, dimenticando che siamo chiamati a essere costruttori di comunione accettando di lasciare il “proprio” modo di vedere, di interpretare, di elaborare per dare fiducia cordiale all’altro, da “l’io all’altro” al “noi” nel vortice di una pericoresi d’amore. Un intreccio di relazioni che non annullano l’alterità, come insegna il mistero della Trinità e come ci ricorda il passo dell’evangelista Matteo (18,15-20) che ci ha donato il tema di questa riflessione. È il passaggio dall’amore di sé all’amore per il fratello. Dalla tentazione dell’affermazione di sé alla gioia del “noi”. Questo è la comunione! Ma non si arriva a questa esperienza se non si patisce il “fratello”, se non si sperimenta la misericordia, la carità, il servizio. Solo se portiamo la speranza e la gioia dell'altro, solo se abbiamo assaporato le sue lacrime, se lo amiamo, siamo autorizzati a intervenire. Non è la verità che ci legittima, ma la fraternità! Si tratta di accogliere il processo del seme che caduto in terra, muore alla sua forma, ma rinasce in forma di germe, non uno che si sacrifica per l'altro - seme e germe non sono due cose diverse, sono la stessa cosa - ma tutto trasformato in più vita: la gemma si muta in fiore, il fiore in frutto, il frutto in seme. Nel ciclo vitale come in quello spirituale «la vita non è tolta ma trasformata» (Liturgia dei defunti), non perdita ma espansione. La carità - infatti - vuole la vita e non la morte dell’altro: la vita degli affetti, il fiorire delle qualità, la crescita nella conoscenza e nella sapienza.

 Oggi, respiriamo un’aria culturale inquinata da un malefico individualismo: “io”, il mio progetto, la mia realizzazione, professionale, personale, magari anche spirituale. Problema molto più grave è quando l’individualismo si giustifica mediante l’ideologia: è la situazione di molti. In parole povere: uno dei motivi per cui, a volte, l’aria nelle nostre comunità diviene irrespirabile è per l’impatto ideologico che si viene a creare. Pensiamo ai danni introdotti da una mentalità egualitaria portata a considerare il livellamento come un diritto dei più poveri. È quanto accade quando si vogliono spartire in modo egualitario i carismi e le risorse spirituali che Dio ha date, in modo diseguale. Un’armoniosa e felice vita di comunione diventa impossibile. E c’è di più: la cultura dell’io fa perdere il senso cristiano della fiducia: la trattiene dentro le strettoie di un’adesione esteriore della volontà e la distoglie da quell’affidarsi a Dio, che dà pace e letizia. Quando veramente si comincia ad appoggiare su Dio e non su sé stessi, si avanza a grandi passi nelle vie dell’amore. Sempre di più, la carità guida i nostri atti e purifica le nostre intenzioni... Allora si diffonde il gusto di stare e di lavorare insieme, la passione di dare al meglio il proprio contributo, piccolo o grande che sia, che viene valorizzato e incastonato nell’insieme.

 “La perfezione dell’uomo consiste nello scoprire le proprie imperfezioni

  I Padri del deserto hanno promosso una spiritualità che si potrebbe definire dell’imperfezione. In sintonia con la teologia di Paolo “La forza - infatti - si manifesta nella debolezza” (2Cor 12, 9), i Padri insegnano che Dio entra nel nostro cuore attraverso le ferite aperte della nostra umanità, ci incontra nei nostri smarrimenti. “Preoccupati di imparare a sbagliare, a perdere, a riconoscere la propria incompiutezza!”, recita un noto apoftegma. Nel cammino verso l’edificazione di una fraternità autentica, decisiva è la capacità di convertirsi accettando di ricevere aiuto dagli altri. “Non solamente abbiamo bisogno di conoscere gli altri, ma più profondamente abbiamo bisogno degli altri per conoscere noi stessi” (D. Eck). Nel rispetto dell’alterità si realizza la vera conoscenza dell’altro e di riflesso di se stessi. La vera conoscenza dell’altro, inoltre, comporta che lo si ascolti superando il pregiudizio di una conoscenza che lo giudica.

 La misericordia di Dio suole raggiungere la persona attraverso l’altro a una condizione: non essere

 nel numero di chi ha la presunzione di sapere già tutto e rifiuta di farsi continuamente discepolo. Questo è uno scoglio grosso. La questione è di fondo: quella della propria insufficienza, l’insufficienza ontologica. Aprirsi all’amore dei fratelli, fiorire nella comunione non è il frutto di uno sforzo umano. L’amore non è una questione di bravura, di intelligenza e di volontà dell’uomo, neppure il frutto di un esercizio di ascesi. La comunione comincia con un atto di umiltà che permette alla persona di scendere fino agli abissi della fragilità. Umiltà che vuol dire accettare la propria verità, senza illusioni e credendo che anche nella palude può nascere un fiore. In realtà non esiste situazione nella quale Dio non possa essere Salvatore. La fraternità prende inizio da questa chiarezza teologica, o meglio dalla riappropriazione responsabile del suo significato cristiano. Diversamente, un uso superficiale del termine “fraternità”, comporta dei rischi: esso, infatti, può assumere molti significati, che devitalizzano la sua qualità evangelica. La vitalità della fraternità è determinata dalla qualità della riconciliazione che circola tra fratelli. In definitiva, quello che Dio ha nel suo cuore deve passare nel nostro.

 La fraternità sostenibile

  A vivere in una maniera costruttiva e feconda risanando e rendendo solide le relazioni, si impara. Infatti, non c’è fraternità là dove manca un’autentica volontà di costruire incessantemente la comunione superando lo spirito di competizione che rende arduo comprendere il passo che il Signore vorrebbe prendere con noi. Il Signore non è competitivo, ma misericordioso. La misericordia promuove un vivere “sostenibile”, creativo, allontana da ogni principio autoaffermativo ed esclusivista. La vita, del resto, non è fine a se stessa: essa è protesa verso il Regno. Per cui “comunione e tensione escatologica sono due atteggiamenti spirituali che aiutano a superare e a purificare ogni faziosità, ogni carnalità che segna anche le nostre relazioni” (José R. Carballo). Siamo chiamati a superare il rischio di vivere la logica del “do ut des”, del tornaconto, del contraccambio, proprio perché orientati verso il Regno ...  Dunque, anche quando la vita fraterna o i gesti che mantengono (“sostengono”) la fraternità viva non sono visibili, perché praticati in spazi e relazioni “interne”, sono comunque, ricchezza di vita evangelica. Del resto un segno non è di necessità vistoso. Esso può anche essere discreto, non imporsi, restando comunque utile. Esperienze concrete di fraternità, come sono o dovrebbero essere le nostre parrocchie, dove persone si ritrovano insieme, nel nome di Gesù, senza essersi scelte, determinano una “crescita di evangelicità” per tutta la chiesa. C’è bisogno di questa esemplarità evangelica, perché la comunione si comprende solo se la si vede e la si vive. Certo, sono stili di vita che non si improvvisano. Sono vangelo calato in relazioni umane caratterizzate da maturità cristiana. Una profonda comunione fraterna esige questo lucido “cammino di maturazione interiore” che porta ad amare i fratelli e le sorelle e a vincere l’attitudine a giudicarli. Ciò esige un cammino permanente di conversione.

 In ciò aiuta incontrare riferimenti autorevoli, nel senso di persone che trasmettono un’esperienza. Una vita si trasmette con la vita. I valori della fraternità si trasmettono con esempi vivi. Nelle nostre comunità c’è una mancanza drammatica di esempi che costruiscano un modo di vita convincente e trasmettano una tradizione feconda. Quello che cambia una persona, che mobilita la sua crescita e la sua trasformazione è l’interiorizzazione dell’esempio di vita che riceve. Questo interpella l’esercizio dell’autorità e formazione della fraternità. Perché l’autorità nella fraternità è tale se manifesta qualità generative, se aiuta a portare all’esistenza la “creatura nuova”, se sostiene la fiducia perché sia manifestazione della fede che fa crescere la persona.

  6. Il perdono: “prezzo” della fraternità sostenibile

  É chiaro che la fraternità non si fonda sulla pretesa della perfezione, ma sulla fragilità e sul perdono che circola tra i suoi membri perché è così che Dio si apre un varco in mezzo alle nostre relazioni. Perciò nella costruzione e nel mantenimento della fraternità il perdono è valore fondamentale. Il perdono produce come effetto, nella persona, l’amore. Non ci può essere vera fraternità e vera comunione senza il perdono. E perdonare non è “chiudere gli occhi” sulla realtà, ma leggerla con occhi nuovi, con gli occhi dell’amore, coscienti che mentre il perdono costruisce, l’odio produce devastazione e rovina. Chi non vive il perdono è come colui che pensa che si possono vivere i valori del vangelo senza il vangelo. Che sia possibile vivere da uomo nuovo senza lo Spirito Santo, da cristiani senza Cristo. C’è chi desidera la fraternità e la comunione, ma non intende pagare il prezzo che queste comportano: passare dall’uomo vecchio, che tende a chiudesi in sé, all’uomo nuovo, che si dona agli altri, che rinuncia a se stesso. Si tratta di un reale spostamento di se stesso, uno sradicarsi dalla propria ipseità. Dall’io chiuso e concentrato su se stesso, fino a trapiantarci in Cristo e vivere come ci ricorda Paolo con i suoi medesimi sentimenti (Fil 2,5). Non si può essere cristiani senza avere, in realtà, un’esperienza personale della salvezza. Ora, tale esperienza avviene attraverso il perdono dei peccati: donatoci nel Battesimo e nel dono dello Spirito Santo che penetra tutta la persona umana. Non aprirsi al perdono è rimanere prigionieri, schiavi del passato.

 Dal dimenticare al perdonare (cosa dice la psicologia?)

  Riuscire ad avviare un processo di perdono non è semplice e per poterlo fare occorre spogliarsi della propria posizione è guardare la realtà dal punto di vista dell’offensore, comprendendo quelle che possono essere state le motivazioni o le pulsioni incontrollate presenti in chi ha commesso l’offesa. Se si riescono a riconoscere anche i propri errori, che possono aver contribuito all’origine dell’offesa o del torto, si possono sviluppare le condizioni per arrivare alla concessione del perdono. Nell’avviare questo processo si possono incontrare diversi ostacoli, tra cui l’orgoglio e la superbia, che possono diventare dei forti deterrenti. Perdonare viene infatti erroneamente assimilato al perdere, allo svalutarsi e all’umiliarsi, perché ci si pone in una posizione inferiore rispetto a chi ha arrecato l’offesa, senza considerare invece che la capacità di andare oltre e perdonare è tipica di un carattere autenticamente maturo e adulto. La psicologia ci insegna che perché ci sia vero perdono devono essere coinvolti tutti i sistemi della persona: cognitivo, emotivo e comportamentale. Dal punto di vista cognitivo ed emotivo, il perdono richiede tempo: infatti può avvenire solo dopo che vi sia stato un processo mentale capace di far tacere il risentimento, la rabbia, il desiderio di vendetta o di punizione della persona che ha perpetrato l’offesa. Il gesto del perdono è solo l’ultimo atto di un lungo processo. Il perdono richiede dunque un grande sforzo, emotivo, intellettuale e spirituale. Chi perdona non è chi vuole necessariamente chiudere un occhio sulla realtà che lo fa soffrire, lasciando correre e guardando oltre: perdonare non significa cercare di dimenticare l’offesa ricevuta, ma solo fare in modo che essa, pur permanendo nel ricordo, non provochi più dolore. La dimenticanza, infatti, non equivale al perdono. Per questo, il perdono implica la liberazione anche da un nemico interno, costituito dall’odio. L’odio, come l’amore, è un sentimento molto forte, che può legare indissolubilmente ad una persona e che dunque fa sì che l’offensore sia sempre nei pensieri dell’offeso, nei suoi ricordi, nei suoi progetti. L’odio crea una dipendenza. Per questo, dal punto di vista psicologico, il perdono viene considerato un valido strumento terapeutico: permette di lenire la sofferenza, di riguadagnare la fiducia in se stessi, e spesso di ristabilire relazioni interrotte fra due persone, attraverso una rinegoziazione delle regole del rapporto. Il perdono tuttavia non implica la riconciliazione: vi possono essere valide ragioni per scegliere di non vedere più il proprio offensore (che tra l’altro potrebbe anche non essere più in vita), sebbene si sia concesso il perdono. Al contrario, non può esservi una vera riconciliazione senza perdono. Dal punto di vista etimologico perdonare significa concedere un dono: è così in tutte le lingue, dall’inglese “forgive”, al francese “pardonner” ed al tedesco “vergeben”.

 La fraternità: luogo di conversione degli affetti

 Il problema fondamentale è di convertire gli affetti, rieducare nella persona la facoltà dell’amore;

 Per uscire dal relativismo che imperversa nel nostro tempo: “è bene ciò che sento”, bisogna lo nuovamente imparare a sentire, desiderare, amare. La conversione degli affetti più che sul lettino dello psicanalista, va cercata nell’esperienza quotidiana della fraternità che cerca la comunione; a patto che questa sia vissuta nell’accoglienza di ciascuno, nel sostegno dei deboli, nel rispetto dato tutti: insomma, nella vera carità. Per questo la relazione fraterna va coltivata non come “una cosa che rassicura e per cui si fa di tutto per farsi accettare, per divenire oggetto dell’amore altrui, illudendosi di amare quando ci si dà da fare per essere visti, lodati, accettati dagli altri”[2]. Questo non è amore ma reazione alla paura, inquietudine che accompagna chi non è appoggiato sulla roccia. È rivelatore di un fondamento fragile, indica debolezza e inconsistenza di chi aspetta la salvezza dalle cose che non possono darla. 

 La fraternità: squilibrio tra desiderio e realtà

  Una forma particolare di sconforto caratterizza la fragilità della vita fraterna contemporanea e fa appello ai cambiamenti. Essa è generata dal fatto di riferirsi a un ideale di fraternità molto alto, con il senso di frustrazione costante per non riuscire a raggiungerlo, anziché partire da un dato di fatto: non siamo fratelli, ma desideriamo esserlo. Questo punto di partenza rende aperti all’azione dello Spirito e responsabili nell’operare scelte - con la forza dello Stesso Spirito - per tessere la fraternità. Rimanere nell’atteggiamento di pretendere dagli altri che soddisfino i propri desideri e bisogni, a diversi livelli, fa avvertire una sorta di delusione per la non risposta alla propria attesa. Il “tutto mi è dovuto” fa forse parte della mentalità relativista del nostro tempo e passare “dalla pretesa all’oblatività” non è scontato per nessuno. L’antidoto sta nella disponibilità ad accompagnare e integrare nella cultura della vita questi appelli fino a che non emerga la capacità di crescere e convertirsi; ravvivando la consapevolezza che è la partecipazione e collaborazione attiva di ciascuno che fa della fraternità un luogo dove condividere il bene e trasformarlo in una sorgente di vita da cui attingere. Non si vuol dire che la fraternità deve essere impeccabile, anzi, ma di amare la propria vita, i fratelli, le sorelle, la casa, il lavoro. In altri termini, amare la propria realtà.

 Concludendo

  Sono persuaso che un rinnovamento delle nostre comunità, non partirà dall’analisi della realtà attuale, ma da una presa di coscienza sempre nuova della nostra umanità ed eredità spirituale, e dalla capacità di interrogarci sulle nostre responsabilità e sulle sfide che ci attendono. In questo panorama, ritengo che la cosa più importante, sia quella di pensare, pensare cristianamente con la nostra testa e con gli strumenti della nostra fede. Pensare con umiltà, perché l’umiltà non è semplicemente un atteggiamento o un sentimento; ma un nuovo modo di pensare, secondo verità. Il nostro agire va sostanziato da un pensiero ricco di umanità e spiritualità vissuta, altrimenti resta un andare dietro le mode, le paure, le suggestioni e non diviene il frutto buono della forza della misericordia fraterna. Quello che la vita fraterna è, sprigiona una vita di testimonianza, capace di rispondere da sé, alle domande che il mondo le pone[3]. Inoltre, Sant’Agostino ci ammonisce: “Tutti si lamentano che i tempi sono cattivi, viviamo bene, e i tempi diventeranno buoni”.  

 



[1] Cfr Z. BAUMAN, Modernità liquida, Laterza, Bari, 2006; ID., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999.

[2] M.I.RUPNIK, Alla mensa di Betania, Lipa, 2004, 48.

[3] Cfr M.I. RUPNIK, L’arte della vita, Lipa, 2011.