SPIRITUALITÀ DEL PELLEGRINAGGIO DAL SACRO AL SANTO

 di Franco Giulio Brambilla

 Suggerisco alcune piste di riflessione per svolgere il tema che mi è stato affidato. Esso contiSene due poli: da un lato, il pellegrinaggio come un cammino che, però, oggi fatica a trovare una direzione e un traguardo; dall’altro, la meta a cui il pellegrinaggio tende, il “Santuario” che, come dice il nome stesso, deve favorire il passaggio dal sacro al santo. A queste due coordinate corrisponde la duplice riflessione antropologica e pastorale che svilupperò.

 

  1. Il cammino: il pellegrinaggio come “sfida” per l’identità personale

 La prima coordinata svolge la possibilità di vivere il pellegrinaggio come cammino nel tempo moderno e postmoderno, da proporre come “sfida” per l’identità personale.

 *          La natura estroversa della ricerca di identità. In primo luogo, la pastorale del pellegrinaggio deve prendersi cura di leggere tutte le forme con cui l’uomo – per trovare la propria identità – deve attingere a una riserva di senso che colmi la sua natura estroversa, eccentrica, pellegrinante. Egli deve abitare uno spazio e un tempo “altro” e incontrare “altri” per ritrovare se stesso. La sua identità si costruisce nella sua relazione all’al­terità, la sua identità è transitiva e drammatica. L’uomo si forma nella sua relazione all’altro e si media attraverso il racconto di un’esperienza e un incontro. L’homo faber che produce e trasforma, calcola e costruisce, quantifica e accumula, ha bisogno dell’homo viator che si meraviglia e incontra, che perde tempo per trovare il proprio ritmo temporale, che esce da sé per ritrovare se stesso. Tutte le forme dell’estrover­sione, dell’uscita della casa, dell’evasione dalla vita feriale, dell’andare verso l’altro, dell’in­contro con il diverso, del confronto multiculturale, della sfida spirituale, dell’esercizio corporea, sono modi necessari per strutturare la propria identità. Anzi essi sono anche modi per ritrovare la propria identità perduta, la propria umanità ferita, la relazione infranta, la comunità frammentata, il corpo sciolto, la vita leggera e la speranza viva.

 *          La forma postmoderna dell’estroversione. Ora, questa struttura fondamentale riceve una particolare configurazione nel tempo moderno e soprattutto postmoderno. Occorrerebbe descrivere, da un lato, le figure antropologiche con cui si realizzano le forme estroverse della ricerca dell’dentità e, dell’altro, le possibilità di senso che esse dischiudono o rendono possibili.

 Certamente, la forma attuale con cui l’uomo cerca di sfuggire alle maglie della società strumentale e pianificata, razionale e produttiva, consumistica e competitiva, ha forti tratti di evasione, di interruzione dell’attività ripetitiva, di ricerca dell’esoterico e dell’esagerato, dell’esperienza-limite e della sfida all’im­possibile. Soprattutto nel campo del tempo libero, questa ricerca di esperienze estreme appare assai evidente. Sulla stessa linea anche il turismo contemporaneo, anche quello religioso, appare come la moneta battuta dal conio stressante e iperattivistico della vita moderna, così che assume i tratti dell’esotico, dello stravagante, del notturno. Pensiamo alla vacanza: ha i modi del last-minute, della vacanza breve e ripetuta, come fosse il respiro affannoso di una vita concitata e defatigante. Fatica a essere tempo dell’in­contro, della cura, della curiosità intellettuale, dello scambio culturale, dell’interes­samento ad altri modi di vita, dello spazio per la famiglia, del dialogo con il partner, dell’ascolto dei figli e, alla fine, del ritrovamento di se stessi. È un turismo (anche religioso), che ha i tratti del fenomeno di massa, dai forti aspetti mimetici. Certo esiste pure un pellegrinare che ha modi più rilassati, ma anche in quel caso si ha come l’impressione che la forza del costume vince sulla voglia di poter fare un cammino capace di percorrere gli spazi dell’anima, della relazione e della passione culturale, della coltivazione religiosa. Così avviene che abitando in un paese che non è, come si dice, un “museo” a cielo aperto, ma una “memoria viva” che ci parla, si solchino altri mari, si attraversino altri cieli, e non ci accorge di ciò che sta sotto i nostri occhi.

 *          Le figure della ricerca d’identità nel tempo.Potremmo persino stabilire un confronto tra le diverse figure di uomo nella ricerca della propria identità attraverso le successive epoche della storia: l’uomo medievale è stato il “pellegrino”, perché ha coltivato la sua estroversione nella forma del pellegrinaggio; l’uomo moderno è divenuto l’“esplo­ratore”, perché ha scoperto nuovi mondi e continenti, solcando mari e visitando paesaggi inesplorati e inviolati; l’uomo del Settecento e dell’Ottocento (forse fino al Novecento inoltrato) si è fatto “viaggiatore”, accostando popoli nuovi e curiosando in culture diverse (si ricordi tra tutti il topos del “viaggio in Italia”, che ha influito persino sulla letteratura, ma anche il “viaggio in Oriente”). Nel (secondo) Novecento, a partire dagli anni ’60, dopo l’esperienza terribile delle due guerre e con l’affer­marsi del boom economico, il turismo (anche religioso) è diventato un caotico fenomeno di massa, dai forti tratti mimetici e consumistici, così che l’uomo è diventato il “vagabondo”, il “bighellone” che si sposta quasi senza meta e scopo, se non quello di divertere (evadere) dalla vita quotidiana e di divertirsi (evadere da se stesso). Egli tenta di allontanarsi dall’immagine di sé che non riesce a plasmare dentro le forme dell’agire quotidiano, ridotto a un fare tecnico senza posa e con scarso significato per la costruzione della propria identità. Anche la sua uscita da se stesso verso l’altro e verso il mondo resta senza meta, vagabonda da un luogo all’altro senza una bussola, così che l’incontro con altre culture, la visita di luoghi carichi di storia, non è capace di interrogarne l’identità e di penetrare nell’anima.

 In ogni epoca storica l’uomo afferma, nelle forme con cui esce dalla sua casa, dal suo paese, dalla sua patria, l’immagine di sé e la ricerca del suo destino: il “pellegrino” si rivela come bisognoso di redenzione e cerca una purificazione trascendente: l’“esplo­ratore” si comprende come l’uomo microcosmo e insegue orizzonti inesplorati; il “viaggiatore” si manifesta come un’anima sensibile e percorre i paesaggi della cultura umana; il “vagabondo” si manifesta nella sua identità fluida e si perde in un vagare senza meta.

 *          L’homo viator e l’identità a caro prezzo. È a questa dinamica che deve rispondere anzitutto la coscienza cristiana con un soprassalto di speranza. Ricordando il tema scelto dal Convegno di Verona, dovremmo far scoprire che dentro le forme differenti dell’estroversione umana – e che potrebbe essere descritta con cui più cura di quanto io non abbia fatto sopra – occorre far scoprire il tratto escatologico che l’an­nuncio del vangelo ci ricorda. Noi siamo “stranieri e pellegrini” – ci ricorda la Prima Lettera di Pietro – che “dobbiamo rendere conto della speranza che è in noi” in un tempo di difficile speranza. Dovremmo quindi far scoprire, dentro le forme tentacolari e disperse con cui si vive oggi la partenza da casa e la ricerca di nuovi approdi, la nostalgia dell’homo viator, rivelare il pellegrino dell’As­soluto dentro le forme fragili e la necessità di legami profondi della vita odierna. Questa è la speranza che possiamo e dobbiamo trasmettere attraverso la “cura pastorale” del pellegrinaggio, di cui conviene inventare nuove forme culturali e spirituali, che mettano alla prova l’identità sempre da capo da ricostruire e restaurare. Per questo al pellegrinaggio è sempre stata collegata la fatica, il viaggio anche avventuroso, talvolta fino pericolo mortale. Il pellegrinaggio deve incidere sul corpo, sulla fatica, sull’immaginario, sui desideri, deve mettere alla prova perché si provi se stessi. Il pellegrinaggio ha un carattere agonistico e agonico, è sfida al tempo che passa, alla morte che affligge il nostro quotidiano corroso dal consumismo e dall’iperattivismo. Il pellegrinaggio alla fine è luogo della “conversione”, della guarigione delle ferite dell’io, della redenzione dei blocchi comunicativi, del ritrovamento dell’uomo come essere di relazione.

       Facciamo un esempio difficile: l’indulgenza (ma prima ancora la preghiera, il rito, la via crucis, il rosario, la liturgia della parola, la celebrazione eucaristica), sovente legata al pellegrinaggio, s’inseriva nel cammino penitenziale del soggetto e nell’accom­pagnamento della chiesa: uscire dal peccato non poteva essere un fatto magico e automatico, ma la grazia del perdono della colpa confessata esigeva un itinerario faticoso (un laboriosus baptismus, dicevano i padri della Chiesa). Durante questo cammino, il penitente non poteva essere lasciato solo, ma era accompagnato dalla preghiera e dall’annuncio della parola, ma soprattutto dalla solidarietà della comunità cristiana.

 La faticosità della “penitenza”, che è stata spesso all’origine della crisi del sacramento, va vista come un momento pedagogico e medicinale, in vista del pieno ricupero del penitente e della completa riammissione nella vita della chiesa. Qui si colloca l’indulgenza, che poteva condonare o commutare in parte o nei modi la penitenza (e uno di questi modi era il pellegrinaggio a Gerusalemme, a Roma, a Santiago, che conferiva l’identità corrispondente di “palmieri”, “romei” e “pellegrini”), fino alla piena reintegrazione nella vita cristiana. Alla fine del cammino doveva apparire che il volto del Dio di Gesù era univocamente misericordioso, ma non di una misericordia languida che copre semplicemente il peccato, bensì di una misericordia forte che rinnova fin nel cuore e nel corpo (i.e. nel quotidiano) la vita dell’uomo.

 

  1. La meta: il santuario come “passaggio” dal sacro al santo

        La seconda coordinata indica la mèta del cammino: il Santuario come luogo che deve favorire il “passaggio” dal sacro al Santo. Possiamo descrivere questo “passaggio” con la metafora dell’ingresso nello spazio sacro (il Santuario), il luogo dove s’in­contrano le forme della devozione e i gesti della fede.

 *          Pronao: il “sentimento” religioso tra profanum e sacrum. La piazza, il portico, il pronao, il nartece, l’ingresso coperto,è il luogo che fa da cerniera tra l’area del profano (che sta davanti al fanum) e lo spazio del tempio (il fanum, il luogo santo). Esso media tra i modi della vita, con cui l’uomo perviene alla propria identità e costruisce il proprio destino, e il riconoscimento del debito grato alla sorgente che fa della vita un dono da scegliere. Per sé e con gli altri. Si tratta di un luogo che consente un primo transito: dalla vita al sacro, e viceversa. E’ una transizione che è messa in moto dal “sentimento”, cioè dalle forme del “sentire”, dell’essere affetto. Queste sono il modo con cui l’uomo percepisce se stesso, si sente appunto come sor-preso (preso-da-sopra) dalla vita. Per questo il sentimento è collegato al “sacro”, perché nell’esperienza del “timore” davanti al segreto dell’esistenza e alla sua origine trascendente (il tremendum et fascinosum del sacro), l’uomo impari a dedicarsi ad essa mediante il gesto con cui “presta credito” al carattere buono dell’esistenza. La devozione si accende quando l’uomo opera questo passaggio, lo fa mettere in moto anzitutto nella forma di un lasciarsi sorprendere, di un “essere affetto” da un sentimento che lo porta a varcare la soglia del segreto della vita quotidiana. La devozioni  sono la lingua parlata e il gesto praticato per varcare la soglia, perché l’esistenza non risulti soltanto da quanto riusciamo a calcolare e a costruire con la nostra ragione strumentale, ma riveli il suo “plusvalore”.

 

*          Navata: le “devozioni” e la forza della devozione. Entriamo dunque nel Santuario. In prima battuta ci si presenta la Navata. La Navata è il luogo – solitamente diviso in più spazi – dove il culto celebrato si incontra con la devozione dei credenti e la fede tenta di dirsi e di rappresentarsi in una forma rituale. Non è un caso che il rito, osservato dal punto di vista della navata, abitata e praticata dalla gente, si rifranga e si disperda in molte forme, talvolta dubbie sotto il profilo della purezza cristallina del rito, tal altra tollerate dalla ritualità ufficiale, ma non meno intense sotto il profilo dell’affetto e della devozione. Bisognerebbe far la storia delle navate delle chiese e soprattutto dei nostri santuari, per vedere come la stessa chiesa abbia saputo permettere, amministrare, favorire le variegatissime forme della ritualità (nel culto dei santi, della vergine, nei templi della cura della sofferenza, del dolore fisico e psichico, di tutte le facce con cui il bisogno di vita e il desiderio di speranza si è espresso nella galassia del sacro). Gli altari che affollano le navate delle nostre chiese raccontano questa storia, le cappelle che si aprono lateralmente a molte basiliche e santuari ricordano le confraternite, le associazioni, le donazioni alimentate dalla devozione e dal tentativo di appropriarsi e di entrare nel rito liturgico (talvolta ingessato e incomprensibile) nella forma corrispondente al sentimento del sacro, alla devozione popolare, al bisogno di una religiosità corporea che vede, tocca, lotta, invoca, piange, si consola e spera. Il giudizio – non solo artistico, ma teologico – che dobbiamo dare su queste sedimentazioni di una storia plurisecolare oscilla tra la gestione soddisfatta e manageriale della devozione (come capita di vedere in molti santuari) e il rifiuto indispettito di ogni forma di devozione in nome di una presunta purezza della fede (come capita di vedere in talune chiese moderne, senza colore e calore). Salvo poi riempire questi spazi grigi e freddi con improbabili icone strappate e qualche volta trafugate dalla tradizione orientale e collocate senza storia e senza affetto in un contesto lontano dalla loro origine.

     Si potrebbe egualmente provare ad abitare la Navata non solo per quanto riguarda i luoghi e i manufatti della devozione, ma per ciò che concerne la stessa celebrazione, per vedere l’effetto del rito celebrato nella spiritualità delle persone. Lo spettacolo sarebbe egualmente sorprendente, come sa bene chi ha provato qualche volta a partecipare ad una celebrazione, mettendosi o spostando il suo punto di osservazione e di azione, dalla parte del credente. Si parte dalle forme di una devozione e attenzione intensissima, ma vissuta a margine del rito celebrato, quasi in luogo e forma discosta, che rielabora il rito in una sorta “bricolage” soggettivo, inventando surrogati tradizionali. Si osserva una modalità passiva, quella di gran lunga più diffusa, che si aspetta una spettacolarizzazione da parte di un rito incapace di suscitare emozioni, che fatica ad alimentare la fede attuale del credente, e quindi scade in didascalia, spettacolo, qualche volta persino in happening. Si nota per fortuna anche una presenza che è capace di unire la celebrazione sobria, degna, armonica all’attesa di poter pregare in una comunità credente, che riesce a saldare lo splendore del rito e il ritmo della sua appropriazione personale, con un modo di celebrare che ha di mira l’atto della fede e la possibilità che si esprima in forme persuasive, semplici, emozionanti senza essere seduttive e teatrali. Quando avviene così il rito è il luogo in cui si esprime la fede, il credente si ritrova e si alimenta non solo esprimendo un sentimento a monte delle forme pratiche della fede, ma attraverso di esse, cioè mediante le forme dell’ascolto, del silenzio, del canto, della lode, della consegna e del servizio, della personale cura di sé e dello scambio sociale. Allora la navata è il luogo strategico dove avviene la fusione tra la fede e il rito, tra l’attesa di incontro con Dio e una forma celebrativa e-mozionante e mist-agogica. La devozione, la “buona” devozione è esattamente il collante tra la fede e il rito. Per questo le devozioni devono liberare la forza della “buona” devozione. Essa è il sentimento, è l’e-mozione che spinge il sacro (il sentimento che la vita contiene un di più) ad aprirsi alla grazia che “vale di più della vita” (il Santo).

 *          Abside: il passaggio al Santo per educare la devozione. Arrivati a questo punto si dovrebbe passare – per proseguire la nostra metafora – al luogo centrale del Santuario, al suo spazio sacro, dove normalmente avviene il rito, in particolare il sacramento cristiano. E’ per così dire il Santo, il luogo per ciò stesso abitato dai custodi della forma istituita della religione. Nella ritualità cristiana tale luogo non è separato dalla navata, perché anche il credente è abilitato a transitarvi, per mettere in comunicazione il sacro con il Santo, il sentimento religioso con la donazione che Dio fa di sé con la sua alleanza nel sangue di Cristo. Perciò il Santo cristiano diventa il luogo della celebrazione dell’unica mensa della Parola e del Pane, l’Eucaristia, la pasqua di Gesù. Si dovrebbe ora svolgere una riflessione che illustri il rap­porto tra religione e fede; e tra devozione e celebrazione cristiana. Non è qui il caso di sviluppare questa trattazione[1]. Preferisco passare quasi a lato questo spazio centrale del Santuario, per collocarmi in una zona dove si può osservare per così dire con un colpo d’occhio il passaggio fatto sinora: l’Abside. E’ un luogo panoramico dove si può guardare a ritroso e cogliere con un’unica prospettiva il cammino percorso. Nei nostri Santuari spesso la gente vi gira attorno, quasi per guadagnare la via di uscita. Se, poi, ci si colloca idealmente nel catino absidale delle grandi basiliche cristiane, noi vediamo il Cristo pantocrator come il punto gravitazionale di tutta l’esperienza vissuta che si svolge nello spazio sacro. Punto d’attrazione e insieme punto di osservazione dell’intero processo che unifica la fede, la devozione, il rito e il sacramento cristiano.

     Il sentimento del sacro e la devozione che lo esprime ha bisogno del rito per riconquistare sempre la coscienza di fede che nel gesto ripetuto ci si avvicina a Dio o meglio Dio ci viene incontro. Perciò nel rito l’uomo riconosce la promessa iscritta nella vita, solo quando con un gesto “sim-bolico” rac-coglie le molte azioni e i molti frammenti della propria esistenza, consegnandoli (il rito) e consegnandosi (la fede) al dono che sostiene il proprio vivere e il proprio sperare. Per questo la devozione è come l’atmosfera del rito e le devozioni danno voce e linguaggio al sentimento del sacro proprio alimentandosi alla ritualità dell’uomo. Il rito custodisce la promessa buona dell’esi­stenza trascendendo se stessa e invocando la presenza di Dio, fa trovare l’identità alla libertà, le dà un volto, dà senso allo scambio simbolico con gli altri, lo trasforma da rapporto funzionale in scambio di significati, di valori e di affetti.

     Si comprende allora perché il sacramento cristiano presuppone e assume la ritualità umana, anzi, perché il rapporto del sacramento alla fede non può passare che attraverso il rito e la devozione che ne è l’atmosfera e il lin­guaggio. Il sacramento cristiano assume la ritualità umana, perché sia possibile l’atto della fede e la fede negli atti. Se il sacramento non vuole abbandonare la ritualità umana nella braccia della forma “sentimentale” della devozione o sequestrare la celebrazione cristiana nelle forme “legalistiche” con cui spesso celebriamo, dovrà realizzarsi in rapporto alla fede. Ma la fede è un atto che si costruisce negli atti della fede, cioè che dà forma alla libertà (mettendola in grado di consegnare la propria vita dispersa a Dio) e che si forma mediante gli atti della libertà (con cui essa si affida alla promessa presente nel mondo e nella propria vita). Dar forma alla libertà (l’atto della fede) attraverso le forme pratiche della libertà (gli atti della fede) esige di assumere, purificare e trasfigurare le forme della religione (i riti e le devozioni), cioè le forme con cui l’uomo non solo riconosce in Dio l’origine buona della vita, del tempo, delle stagioni dell’esistenza, ma si lascia plasmare dal suo venire benevolo che dà senso all’agire e al soffrire dell’uomo. Tale lasciar essere, l’essere sor-preso, l’essere toccato, l’essere affetto dal venire di Dio (anzi dal suo comunicarsi benevolo, misericordioso, redentore nella carne di Cristo), configura l’atto della fede e la fede negli atti come un affectus, come un riceversi affidabile, come un’attrazione persuasiva e come un’emozione con-fidente, da condividere con altri e da dire con gesti che toccano la vita, che coinvolgono la mente e il cuore, il corpo e l’anima, l’agire e il patire, l’amare e lo sperare.

Siamo giunti così alla mèta del nostro pellegrinaggio, del passaggio dal sacro al Santo, della ricerca dell’identità alla forma emozionante e confidente della fede. Questo cammino non ha altro scopo che costruire il credente! Ricordiamolo: alle porte dei nostri Santuari non arrivano solo credenti, ma tanti, se non molti che invocano di essere aiutati a diventare credenti. Il nostro ministero, allora, diventa un’avventura affascinante, perché l’uo­mo distratto e disperso ritorni trasformato e rinnovato alla vita quotidiana nella città degli uomini.

  + Franco Giulio Brambilla,  Vescovo ausiliare di Milano

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Relazione tenuta da S.E. Mons.  Franco Giulio Brambilla all’interno del 43° Convegno Nazionale dei Rettori e degli Operatori dei Santuari Italiani, tenutosi a Genova dal 27 al 30 ottobre 2008.

[1]       Essa esigerebbe molto tempo e mi sono già cimentato brevemente con essa: cf F.G. Brambilla, «Gesù pane vivo per la vita del mondo. Per un cammino di appropriazione dell’Euca­ristia», in Varcare la soglia, Milano, Ancora, 1994, 71-108.